20/12/2023
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Bologna
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Scanavino io mani, un racconto per immagini del 1971 (Edizioni L'Uomo e l'Arte) firmato a quattro mani (perdonate il gioco di parole) da Enrico Crispolti ed Alain Jouffroy, con l'ovvia complicità dell'artista, che ha inciso in modo molto particolare nella mia formazione intellettuale. Ora, nel lavoro di Margherita Calzoni ritrovo forte ed incisivo quel senso della presenza delle mani. La mano è l'attore della rappresentazione denominata “quadro” e identificata con la “superficie”, un piccolo “teatro”, circoscritto, nel quale viene mostrato il gesto e attraverso questo il segno. Noi non siamo chiamati a vedervi un prodotto, a pensarlo ed assaporarlo, ma a rivedere, identificandolo e godendone, il movimento che vi è pervenuto, che vi è stato “condotto”. E' come se davanti ai nostri occhi quella mano, quelle mani tornassero a danzare, scivolando da un pas de deux a momenti più corali.... Quel movimento lascia dei segni, dei tratti che servono a definirlo, a nutrirlo di significato, a codificarlo. In un certo senso è come se la pittura si “limitasse” ad essere scrittura, una scrittura di tipo ideografico dove il “tratto” della mano - quello che in paleografia viene chiamato ductus - ha la massima importanza. Sensazione evidente se si guardano in particolare i disegni. Margherita Calzoni costruisce un proprio “alfabeto”, un proprio universo segnico, nel quale affiorano memorie e sedimenti visivi, provenienti in particolare dall'area della pittura aniconica, accanto a presenze simboliche, “elementi particolari, anche esotici, provenienti da paesi stranieri, proprii di diverse identità culturali o, come i simboli matematici, segni universali, che hanno lo stesso valore per ogni persona al mondo, indipendentemente dalla lingua e dalla nazionalità”.(1) Presenze della contemporaneità e della globalizzazione, ma anche della materia, informe e dai codici differenti, “presa in prestito” per essere “forgiata” e decontestualizzata. La materia è l'altro elemento fondante del binomio sul quale la Calzoni costruisce la propria ricerca. Per sua stessa ammissione, esplicitata in un altro dei suoi scritti, la materia è elemento imprescindibile della sua pittura: gesso, corda, carte di ogni tipo, giornali, catrame, garze e quant'altro, da stratificare ed amalgamare con colle, stucchi, vernici, per “spiazzare” il quadro, dargli corpo e tridimensionalità. Già, il corpo...., non so se Margherita ne ha consapevolezza ma io non “sento” contraddizione tra i fogli segnati da tratti morbidi e movimenti leggeri di colore e i lavori (come Bronzo, Sforzo meccanico o Migrazioni) dove insistono l'accumulo o la traccia marcata. E' lo stesso tipo di tratto a governare, e attraverso quel tratto il medesimo corpo. Come ebbe a scrivere Roland Barthes “il tratto, per quanto soffice, leggero o incerto, rinvia sempre a una forza, a una direzione: è un energon, un lavoro, che invita a leggere la traccia della sua pulsione e del suo dispendio. Il tratto è un'azione visibile.”.(2) E inimitabile: di fatto il corpo dell'artista, i suoi lasciti, non saranno mai i nostri, se non nel gioco sottile della seduzione, che “si consuma” nello scambio previsto dal mercato, dall'acquisto di quel tratto. Ma torniamo a bomba. Un altro elemento, apparentemente non codificato, insorge in questo lavoro: tra le serie di foto d'arte ce ne sono alcune che hanno come soggetto un occhio, l'occhio destro dell'artista.... La sua presenza è indice della ragione %u2018evidente', della permanenza, all'interno del linguaggio, di un'idea di “richiamo all'ordine”, di elementi che danno rigore, “senso geometrico” ed “equilibrio” al quadro. Questo il significato delle linee, spesso materiche, tattili, talvolta veri e proprii volumi, che “attraversano” molte opere. Segno e materia, nel loro costante rinvio alla mano, costituiscono dunque la parte “mancina” di questo corpo, la sua anomalia linguistica, mentre la linea è proiezione dell'occhio, della razionalità visiva che prova a mettervi un po' d'ordine. L'arte informale irrompe in questo scenario con una molteplicità di echi che Margherita Calzoni mostra di aver assimilato. Citarli tutti non farebbe che appesantire inutilmente la nostra capacità di vedere. E' sufficiente segnalare tre nomi: Tobey, Hartung e Scialoja, tre vertici ideali entro i quali risulta iscritto il triangolo creativo dell'artista. La dimensione del colore e la “sottile visione del mondo”, per usare un'espressione del Tao, che lo percorrono, concorrono, insieme con segno e materia, a comporne la peculiarità. Il colore è “supporto” del linguaggio, preesiste al segno, al graffio e alla materia e allo stesso tempo li suggella: fa parte integrante della texture della superficie ma allo stesso modo la evidenzia, velandola. E' un colore che unifica i vari modi del suo esistere - intenso o delicato, pastoso o fluido, deciso o incerto - nel piacere del gesto che lo fa accadere, che lo fa essere. Su questo supporto il quadro si da lo status di documento delle paure dell'uomo e dei suoi desideri: all'interno di questa dicotomia oscilla, fluttua costantemente, tra memorie, evocazioni di segni “di natura”, movimenti che si ripetono (le stereotipie moderne?) e linee che scivolano via da una loro possibile definizione matematica scegliendo l'appartenenza all'ambito dell'errore, della disgrazia, solo apparentemente incomprensibili.