11/09/2019
ANDARE OLTRE
Come forse molti di voi già sapranno, da questa stagione sportiva io e la mia famiglia non saremo più i gestori del bar del Palazzetto di Masnago.
Non mi soffermerò sui motivi che hanno portato a questo costretto addio, ma non posso nascondere il sentimento di tristezza infinita che mi pervade mentre scrivo queste righe. Fosse stato per me sarei andato avanti in quest’avventura fino alla pensione, cercando di ristabilire quell’equilibrio che si era forse smarrito, di aggiustare le cose che dovevano essere aggiustate e di migliorare ciò che era da migliorare. Mai però - ve lo assicuro - avrei voluto abbandonare quella che a tutti gli effetti è diventata una mia seconda casa, un bene intimo da proteggere e custodire, un luogo e un lavoro cui ho dato tanto e ricevuto tantissimo.
Chiudo con le lacrime agli occhi un percorso durato 8 anni che ha segnato me e i miei familiari - e fin da ora li ringrazio - parte integrante di questa vita dentro il Lino Oldrini. Mi sembra ieri che accettavo la proposta di Cecco Vescovi di rilevare il bar con l’obiettivo di scommettere su un suo rilancio. Al di là dell’aspetto professionale, quell’invito mi parve quasi il compimento di un percorso, iniziato come tifoso ai tempi della Mobilgirgi, proseguito come giocatore delle giovanili (nella palestrina di via Rainoldi) e giunto alle tante stagioni da accompagnatore delle varie “under” nelle quali ha giocato mio figlio Alessandro: l’amore per la Pallacanestro ha accompagnato tutta la mia esistenza e sempre così sarà, al di là di ciò che sta accadendo… Fu quindi facile dire sì, non altrettanto rifondare un’attività ormai agonizzante, un bar che rimaneva aperto solo la domenica durante le partite, che aveva i mobili mangiati dai topi, il pavimento malmesso, i montascale per i disabili mal funzionanti e che, soprattutto, nessun tifoso biancorosso considerava come un punto di riferimento.
In questi giorni sono state molteplici le testimonianze di tifosi e amici. Mi hanno fatto capire che quello che lascio, invece, è un luogo dove tutti - prima o poi - hanno cacciato dentro la testa almeno per dire un “ciao”, per prendere un caffè o per ricevere un sorriso. Un bar finalmente accessibile a chiunque. Un bar diventato un “porto” sicuro per tifosi, giocatori, allenatori, avversari. Un bar aperto ogni giorno, un bar in grado di ospitare i ragazzi delle giovanili tra un allenamento e l’altro e di offrire un ristoro ai loro genitori. Cecco, fin dal primo momento, mi aveva chiesto un servizio continuativo, di essere il primo a entrare e l’ultimo a uscire. Di diventare una sorta di custode di quella “cattedrale”. Di diventare un punto di riferimento. Missione Compiuta. E lo scrivo con orgoglio e consapevolezza.
Se mi guardo indietro, rivivo otto anni pieni, intensi, volati come se avessero le ali. Otto anni di una fatica che non mi è mai pesata, perché quello che ho fatto mi è sempre sembrato una sorta di privilegio, da onorare dando tutto me stesso. Non mi è mai costato fare anche più di quello che mi veniva chiesto, fosse alzarmi alle quattro del mattino per accompagnare un dirigente o un giocatore all’aeroporto, correre a preparare le travel bag per le trasferte della squadra all’ultimo momento dopo una telefonata del sempre presente Team Manager Ferraiuolo, fare un giro intorno al Palazzetto per cacciare i malintenzionati e chi più ne ha più ne metta: era normale “andare oltre”, per Pallacanestro Varese e per quel luogo divenuto una parte di me.
Rivivo otto anni di allenatori con cui ho stretto rapporti che sono andati ben al di là della consuetudine, da Charlie Recalcati (che insieme alla sua gentilissima consorte non ha mai mancato di farmi una visita), a Frank Vitucci che non si scorda mai di un mio compleanno, a Gianmarco Pozzecco che ha preteso montassimo la Playstation per “sfogarsi” prima di ogni allenamento (e come si incazzava, quando perdeva giocando a Fifa con mio figlio!), a Ugo Ducarello che era diventato quasi un fratello, ad Attilio Caja che mi ha onorato di uno dei commenti “professionali” più graditi, definendo il mio risotto come il migliore che abbia mai assaggiato.
Rivivo otto anni di giocatori da coccolare come se fossero dei figli, da ascoltare e consolare nei momenti no, da far sentire a casa in una situazione in cui la loro casa era davvero lontana, da “accarezzare” con qualcosa da mangiare o da bere preparato come Dio comanda. Che risate con Eyenga, che sentivo gridare “Max Max!” fin dal parcheggio del palazzetto (ha voluto persino imparare a giocare a scopa e devo dire che era diventato bravino). O con Kuba Diawara, affezionato alle mie spremute come a nient’altro. O con Daniele Cavaliero che mi ha regalato una maglietta con su scritto “a uno dei miei angeli custodi”. E come dimenticare Kangur e la gentilissima Inge con cui spesso mi soffermavo a parlare nonostante il mio strampalato inglese. Ed anche Stipcevic o Ranniko, che volevano solo i miei spaghetti con il pomodoro fresco, o Maynor (indimenticabile la serata dopo la visita alla Poretti) e - da ultimo ma non ultimo - capitan Ferrero, che l’anno scorso avrebbe voluto che preparassi tutti i giorni da mangiare per la squadra come era successo durante la preparazione estiva, tanto si era trovato bene…
Se ne vanno otto anni di partite vissute con il cuore in gola pur senza vederne nemmeno uno scampolo: io ne capivo l’andamento dai suoni nel palazzetto, dal suo respiro… Sarà anche per questo che i rumori del Lino Oldrini me li sogno ancora di notte! Perché mentre tutti tifavano, per noi c’era giustamente da lavorare: il bar del parterre, quelli degli altri settori, la sala hospitality da allestire e smontare a tempo di record, i panini e le focacce avanzate da portare nel terzo quarto in omaggio ai tifosi ospiti così da strappare un sorriso anche a loro.
Se ne vanno otto anni di caffè offerti ad arbitri, ufficiali di campo e allenatori avversari, con la speranza che portasse fortuna: era successo una volta, da allora non ho più smesso (sono molto scaramantico, sapete?). A proposito: un saluto speciale al grandissimo Sandro Galleani, ora responsabile dell’accoglienza dei “fischietti” e signora.
Se ne vanno otto anni di un’ospitalità donata indistintamente con un solo traguardo da raggiungere: che tutti la potessero apprezzare non come un’ospitalità mia, ma come quella della Pallacanestro Varese.
Li ho lasciati per ultimi in questo lungo saluto, ma sono sempre al primo posto nel mio cuore: sono tutti i ragazzi, allenatori, dirigenti e genitori del settore giovanile. In questi anni ho sempre cercato di dare il mio piccolo contributo alla loro causa, alcuni di loro li ho visti crescere, moltissimi li ho visti inseguire un sogno in un ambiente sano e istruttivo. Ho messo a disposizione la mia passione per la fotografia cercando di raccontare con le immagini le loro fatiche e le loro emozioni. Spero di esserci riuscito!
Ringrazio tutti. Dal primo all’ultimo. Alessandro, che in questo palazzetto è diventato grande, trascorrendoci un’intera giovinezza. Tutto il mio staff partendo da Chiara, dalla insostituibile e instancabile Emanuela e da Biagio, Chiara D., Cristina, Francesca, Giorgio, Roberta, Roberto, Silvano, Silvia, Tommaso, Valentina, che non mi hanno mai lasciato solo.
E poi tutti i giocatori, gli allenatori, i dirigenti, il personale degli uffici, il team logistica del Palazzetto, gli steward, i tifosi, i consorziati, i membri del Trust (gente che vive ciò che riguarda la Pallacanestro Varese con il mio stesso spirito, pieno di amore). Sicuramente mi sono dimenticato di qualcuno ma ci sarà modo di ringraziarvi tutti.
Sogno che questo sia un arrivederci, non un addio.
Mi mancherete.
Massimo