14/08/2017
Un bellissimo ricordo che Fabio Pupillo scrive sul maestro
Giovanni Guglielmo, pietra angolare della cultura e della musica non solo a Vicenza.
“Ve la go mai contà quea de…” così il Maestro era solito spezzare la concentrazione di una prova raccontando un aneddoto vissuto in più di mezzo secolo di brillantissima carriera musicale. Apriva dei piccoli scenari di storia della musica…no, non quella dei manuali ma quella di chi, in prima linea, si era sempre messo a totale servizio della musica. E così i racconti spaziavano dagli anni in Fenice a quelli a Santa Cecilia, dagli incontri avuti con leggendari solisti, dalle esperienze fatte in tutto il mondo e molto altro ancora…Questi racconti, però, non avevano la funzione (che hanno per molti) di autocompiacersi o autocelebrarsi, ma di riportare la figura del musicista ad una dimensione profondamente umana, scevra di tutta quegli orpelli che lui detestava. Sì perché il Maestro era una persona che amava la concretezza e la schiettezza e non gli eccessivi formalismi e la prosopopea.
Aveva una naturale eleganza nel portamento ed anche nel lessico. Non era né logorroioco né parolaio e non pronunziava sentenze lapidarie su nessuno. Tante volte gli chiedevamo giudizi o pareri su violinisti e ci piaceva ascoltare la sua analisi perché era sempre piuttosto lucida. Si capiva, però, quando qualcuno non lo aveva musicalmente colpito perché diceva:” L’è un bravo toso!”
Sedici anni di musica insieme, spesso fianco a fianco, non sono pochi e tantissimi, in questo momento, sono i ricordi che passano nella mia mente e che si traducono talvolta in riso e talvolta in pianto.
Dal Maestro ho imparato tantissimo. Non c’era prova dove lui non arrivasse con la partitura e la sua parte ricca di annotazioni. Suonare con lui dava sicurezza ed emozionava: SEMPRE. Ma gli aspetti che più mi colpivano erano, in particolare, due. Il primo era la sua capacità di risolvere, non attraverso trattazioni filosofico-teorico-esistenziali, la difficoltà esecutiva ma con la concretezza dell’esperienza. Capiva immediatamente qual era il problema e dava il consiglio giusto al momento giusto, talvolta anche, con delle espressioni che per noi rimarranno indelebili: “el masenin”, “sonare sue sfese” e tantissime altre ancora. La seconda era la dimensione ludica del suonare. E sia beninteso che ludica, in questo caso, vuole avere l’accezione di significato più nobile, ovvero quella capacità di vivificare l’atto performativo superando i tecnicismi e liberandosi dalle catene dell’eccessiva razionalità. Nietzsche, parafrasando Goethe, diceva che gli era odioso tutto ciò che lui istruiva e non lo vivificava. Il Maestro era proprio questo! Non c’era volta che ad una provocazione musicale non rispondesse, che non cogliesse estemporaneamente una proposta di abbellimento o un improvviso cambio di dinamica, magari non concordato in prova ma arrivato sulla scorta dell’emozione del momento.
Con lui sentivo una fortissima empatia anche nell’atto dell’esecuzione. Ricordo, come fosse ieri, un concerto a Trento. Tra i brani in programma: “La Notte” di Vivaldi. Durante l’esecuzione, flauto pronto per attaccare un “solo”, vengo distratto da una persona che rumorosamente entra in sala e quando sento la mia parte suonata dal Maestro capisco di non essere entrato e mi riaggancio un paio di battute dopo. Alla fine del concerto vado dal lui e gli chiedo come avesse fatto a salvare in quel modo la situazione. Mi disse: “Ho percepito che non partivi”. Come abbia fatto rimane un mistero? Io davanti a lui con il flauto imbracciato e nulla avrebbe fatto intendere che non sarei partito. Eppure lui era un vero giocatore, un vero esecutore. Fiutava tutto, reagiva immediatamente, coglieva ogni minimo dettagliato: era sicuramente nato per suonare il violino. Quel violino che, come raccontava spesso, gli avevano messo in mano da bambino per tranquillizzarlo (essendo molto vivace). Tutta quella vivace lui la tradusse lì: ogni esecuzione era carica di energia e di voglia di vivere, intrisa da quel piacere di realizzare qualcosa di emozionante. Ma non si fermava a ciò! Il tutto sempre affrontato con uno studio attento e meticoloso della partitura e con un approccio di massimo rigore e rispetto.
Il Maestro suonava tutto. Non c’era autore che non avesse la capacità di affrontare e di “restituire” abbellito dalla sua maestria. Lui ci insegnava che tutti i compositori avevano lo stesso diritto di essere studiati ed eseguiti con il massimo impegno e rigore e che il nostro compito fosse quello di riproporli al pubblico con profondo rispetto. Non stava a noi giudicare perché, in quel momento, non eravamo chiamati a farlo.
Nel 1999 con Tiziano andammo a casa sua. Per me era la prima volta mentre lui c’era andato già diverse volte, essendo allievo di sua moglie, la carissima prof.ssa Giuliana Padrin. Mi stupì l’accoglienza e l’affetto col quale ci prepararono una lauta merenda. Gli parlammo del nostro desiderio di studiare in modo approfondito la musica da camera e di continuare quella bellissima esperienza promossa dagli Amici della Musica di Vicenza duranti i corsi a Palazzo Leoni Montanari ideati da Piergiorgio Meneghini e Fatima Terzo Bernardi. Il Maestro accolse la proposta con entusiasmo e proprio quell’entusiasmo mi diede il coraggio di presentare a Fatima il nostro progetto. Anche lei lo accolse col medesimo entusiasmo e successivamente capii che quell’entusiasmo e quella sicurezza Fatima l’aveva per l’enorme stima che nutriva per il Maestro. Iniziammo le prove nel Salone d’Apollo di Palazzo Leoni Montanari. Diversi furono i ragazzi che, all’epoca, parteciparono a questa prima esperienza. Anni carichi di emozioni e di studio nei quali cercavamo di apprendere tutto quello che era possibile dal Maestro. Facemmo i primi concerti e l’esperienza via via iniziò a consolidarsi a tal punto che il Maestro ci propose di selezionare un organico scelto e fondare un vero e proprio gruppo. Parlammo della cosa con Fatima che, ancora una volta, accolse con entusiasmo la proposta. Restava da scegliere un nome. Ne vennero fuori tantissimi e di tutti i tipi. Un giorno ci chiamò Fatima ed andammo, con Remo, nel suo ufficio in Contrà Santa Corona, 25 a Vicenza. Ci disse: “Sono anni che provate nel Salone d’Apollo perché non chiamiamo il gruppo Ensemble Musagète in onore di Apollon Musagète!”. Ci sembrò una proposta talmente bella ed intelligente che la accogliemmo con favore: il resto fa parte di una storia e di un sogno che ancora prosegue. Un sogno che il Maestro, come un vero padre, ha protetto e coltivato. Ha saputo essere il nostro collante e se oggi siamo ancora così profondamente uniti lo dobbiamo a lui. In ogni frangente ha avuto l’intelligenza di capire quale fosse la mossa giusta da operare anche nelle piccole cose. Quando, per esempio, percepiva della tensione durante una prova ci offriva il caffè e ci metteva un cioccolatino sul leggio: piccoli gesti di chi è veramente grande.
Ho amato e amerò sempre il Maestro che per molti versi ha rappresentato un padre per me. Presente, col suo violino, in tanti momenti della mia vita da quelli di grande gioia (il mio matrimonio) a quelli di profonda tristezza (il funerale di mia madre). Presente, con la sua discrezione, nel comunicarmi il suo affetto durante la malattia di Sandro. Presente, con il suo amore, scrivendomi pochi giorni fa che non dovevo preoccuparmi perché non aveva bisogno di nulla.
Grazie Maestro resterà sempre una delle parti più importanti del mio cuore!