11/02/2020
Tre mesi fa Porto Cesareo fu colpita da una terribile mareggiata. Un'Estate di San Martino anomala, che purtroppo verrà ricordata nel tempo. Quello che è successo nella notte tra l'11 e il 12 novembre del 2019 ha ferito dolorosamente una comunità e il suo territorio. Ma per fortuna non tutti i mali vengono per nuocere...Il mare e il vento, in quella stessa notte, hanno restituito a Porto Cesareo una pagina preziosa della sua storia.
A dicembre scorso, a qualche giorno di distanza dall'apertura del cantiere, abbiamo incontrato la Dr. Serena Strafella, Funzionario della Soprintendenza archeologia belle arti e paesaggio Brindisi, Lecce e Taranto, che ringraziamo per questo conforto esplicativo sulle evidenze archeologiche rinvenute presso la pen*sola di Torre Chianca, il nostro “Goa”.
Al link la documentazione fotografica:
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--- Intervista ---
S.B. Porto Cesareo luogo di interesse archeologico?
S.S. Certamente. Porto Cesareo è un contesto interessantissimo perché, come Roca Vecchia, è un palinsesto insediativo: significa che in poche centinaia di metri ci sono testimonianze di epoche diverse. Per esempio, a Scalo di Furno ci sono tracce di frequentazione dell’Età del bronzo. Stiamo parlando del secondo millennio Avanti Cristo…Tracce che si estendono anche in acqua: ci sono due relitti, il relitto della Strea e quello del Bacino grande; c’è il carico della navis lapidaria, cioè le colonne romane proprio qui vicino, a Torre Chianca. E poi ci sono i resti a terra. Tra questi per esempio quelli di queste due pen*sole, la pen*sola di Torre Chianca e la pen*sola adiacente che è quella della necropoli, dove ci troviamo oggi. Tra l’altro, lì, sulla pen*sola di Torre Chianca nel ’68, precisamente, Gino Lo Porto scavò con metodologie che ormai non sono più adeguate ai tempi, recuperando materiali e dati di strutture presenti, forse riferibili alla presenza di un’area artigianale per la lavorazione della porpora. Però anche questo è un contesto che va tutto ripreso in esame.
S.B. Qual è la situazione che abbiamo davanti ai nostri occhi e…sotto i nostri piedi sulla pen*sola di Torre Chianca?
S.S. La pen*sola dove ci troviamo oggi in realtà nei secoli scorsi doveva essere annessa all’isola di fronte. Nelle foto aeree degli anni Cinquanta è ancora evidente, si vede che c’è un lembo di terra coperto di sabbia che metteva in comunicazione questa pen*sola con quella che oggi appare come un’isola. Anche quest’area è stata interessata da indagini archeologiche qualche decennio fa. In particolare, nella metà degli anni Ottanta, il Dottor Ciongoli, quindi la Soprintendenza archeologica dell’epoca, scavò alcune sepolture e rinvenne dei manufatti, dei segni della presenza umana, tracce insediative che in realtà non sono mai state riprese in considerazione. Lo scavo, una volta terminato, si chiuse lì, non ci fu nessuno che si occupò di fare il cosiddetto “post-scavo”, di riprendere in esame cioè i diari di scavo, le relazioni, i disegni, le foto, per cercare di dare un’interpretazione storica degli elementi rinvenuti. I materiali sono attualmente conservati a Taranto, e stiamo cercando di farne una selezione perché ci piacerebbe restituire qualcosa al territorio, in una prima fase almeno in termini di conoscenza, anche con il sostegno dell’Amministrazione comunale e dell’Area Marina Protetta.
S.B. Può dirci qualcosa in più sullo scavo che state facendo ora?
S.S. Lo scavo che stiamo facendo adesso è concentrato su un’altra area rispetto a quella degli anni Ottanta, naturalmente, perché all’epoca indagarono la porzione centrale della pen*sola. Questa zona in particolare era sotto la duna, in parte, non completamente; ma soprattutto non si conosceva la presenza di queste sepolture che si trovano proprio in corrispondenza dell’attuale linea di costa e che sono venute alla luce con il suo arretramento. Questo ha costituito per noi un problema di tutela che però può tramutarsi anche in risorsa. Questa infatti è l’occasione per scavare, finalmente, e con metodologie nuove, una necropoli che all’epoca era stata scavata con metodi oggi superati. Per esempio, non venne dato il giusto spazio ai resti umani, mentre in questo caso possiamo farlo: possiamo recuperarli, farli studiare da un antropologo, cercare di ricavarne informazioni preziose. Ora, grazie alle nuove metodologie e ai nuovi strumenti, si possono evidenziare dati sul tipo di vita che si conduceva all’epoca, sull’alimentazione, sulle malattie prevalenti, sul tipo di mortalità…
S.B. Cosa sta venendo fuori dallo scavo che state conducendo?
S.S. Questo versante della pen*sola racchiude una piccola porzione di necropoli. Qui ci sono dei blocchi, questa [ci indica] probabilmente è una lastra di copertura di una sepoltura che però non sappiamo se sia conservata al di sotto, può darsi che la lastra sia fuori posto. Lei [indica la Dott. Ria] sta pulendo questo strato, che è composto da materiale laterizio e ceramico. Ancora, naturalmente, essendo in fase di scavo, non sappiamo esattamente come interpretare quello che stiamo vedendo. Pare però che ci sia la porzione di un crollo di un edificio, quindi tracce di edilizia abitativa, con uno zoccolo in muratura e forse un alzato in materiale deperibile. C’è infatti uno strato molto scuro, che potrebbe essere l’esito della decomposizione del materiale organico, che lo lascia supporre. Quindi forse abbiamo quel che resta di una struttura in edilizia povera, forse con funzione artigianale anche questa, esattamente come le strutture che sono state rinvenute verso la punta della pen*sola, sempre negli anni Ottanta. Anche i materiali rinvenuti sembrano riferibili ad attività artigianali. Da questo punto di vista stiamo avendo delle conferme.
S.B. Come si procede in questa attività di indagine?
S.S. Lo scavo stratigrafico, che è la metodologia che non è stata applicata nei decenni precedenti e negli scavi precedenti, proprio perché si è affermata in Europa alla fine degli Anni Settanta, e in Italia ha preso piede un po’ più tardi, prevede di scavare, quindi di pulire, documentare e poi rimuovere uno strato alla volta. Lo strato, in gergo tecnico, si chiama “unità stratigrafica” ed è la traccia lasciata da un’azione ella presenza umana sul terreno. Per dire: se io scavo una buca, resta una traccia sul terreno. La traccia è costituita dal taglio nel terreno e poi dal riempimento della buca. In questo caso, la traccia dell’attività umana è nella presenza di quel che resta della struttura muraria, il crollo, o questo strato che dobbiamo ancora interpretare, costituito da materiale laterizio e materiale ceramico [indica]. La presenza stessa di una sepoltura è traccia di un’attività umana costituta da più azioni, perché per realizzarla bisogna scavare una fossa, foderarla con materiale litico, ceramico oppure inserirvi con un sarcofago, deporre il defunto, ricoprirla con una copertura propria di una sepoltura e alla fine coprire tutto con della terra. Ecco che anche una cosa molto semplice come una sepoltura è in realtà costituita da più unità stratigrafiche. Per questo lo scavo è molto lento, perché unità per unità bisogna pulire, documentare e poi rimuovere. L’attività di scavo è un’attività distruttiva, per questo è così importante eseguirla bene, con precisione: una volta che l’unità stratigrafica è stata asportata non abbiamo più possibilità di documentarla.
S.B. La posizione, poi, non aiuta…
S.S.La posizione non aiuta perché c’è il vento, il mare, le mareggiate…Tutte le volte che il mare arriva a ridosso di questa zona ci sono danni da registrare. Entra l’acqua…l’acqua è entrata anche lì [indica], nel primo saggio che poi vi farò vedere, dove, per fortuna, sepolture non ce n’erano. Qui il mare potrebbe portar via lo strato che vedete, se non lo fa prima lei [l’archeologa]: la violenza dell’acqua è tale per cui questi pezzi ceramici vengono portati via subito.
S.B. Questi blocchi litici? Può raccontarci qualcosa?
S.S. Questo [indica] per esempio è il fondo di un sarcofago. Questi, quanto prima, insieme ai coperchi e alle lastre di copertura, devono essere rimossi per evitare che il mare li porti via o li consumi, letteralmente. Vedete? Sono in calcarenite: è una pietra molto morbida. Guardate [indica]. Qui qualcuno ha lasciato “traccia di sé” scrivendo sulla pietra con della terra. Bisogna evitare anche questo, che vengano danneggiati, affinché un domani possano essere esposti integri. Questo [indica], per esempio, è un coperchio di sarcofago con acroteri laterali. Per la tipologia questi coperchi sembrano tardo-romani. Però naturalmente, finché non troviamo materiale in associazione è difficile dirlo. Qui [indica] ci sono anche delle sepolture che sono ormai concrezionate, per esempio questa [indica]. Adesso lei [l’archeologa] ha coperto tutto con della sabbia per evitare che resti sia a vista ma qui c’è la metà di un cranio umano con dei denti. Quando siamo venuti a rimuovere le ossa abbiamo provato a rimuovere anche questo, ma è concrezionato, cioè è diventato un tutt’uno con la roccia. Questo [indica] doveva essere il taglio di una sepoltura. Sicuramente si vedrà nei prossimi giorni, perché il mare arriverà e porterà via la sabbia.
S.B. Come si agirà, considerando le diverse competenze insistenti sull’area?
S.S. Bisognerà tener conto delle competenze degli altri attori sul territorio e soprattutto delle sovrapposizioni. Ora vi farò vedere un punto molto interessante, ma anche molto complesso dove entrano in gioco queste sovrapposizioni: la necropoli, come vedete, si estendeva in questa direzione per diversi metri. ora, naturalmente, essendo AMP - Area Marina Protetta Porto Cesareo, l’ho fatto presente al dott. D’Ambrosio. Ecco un esempio chiaro di sovrapposizione. È chiaro che sarebbe mio interesse rimuovere la duna, la vegetazione e scavare quindi la sepoltura. Ma è altrettanto chiaro che non si può fare, per salvaguardare l’ambiente naturale. Quindi, bisognerà “aspettare” che il mare, con l’arretramento delle linee di costa, invada questa porzione della duna per poi, a quel punto, poter intervenire.
S.B. Cosa sperare, dunque?
S.S. Anche noi, nella stessa Soprintendenza, abbiamo due cuori. Il settore competente per la tutela del paesaggio vuole il ripascimento della duna costiera. Per noi archeologi, evidentemente, l’interesse sarebbe quello dello scavo delle sepolture, quindi l’arretramento della linea di costa favorirebbe le ricerche.
S.B. Ci sono altre sepolture?
S.S. Sì. Qui [indica] c’è un’altra linea di sepolture, che sono già in acqua e che adesso abbiamo protetto. Qui e più avanti [indica], dove ora c’è il mare, ci sono degli scheletri ancora in connessione anatomica che cercheremo di scavare non appena arriverà a completamento del team anche l’antropologa. La squadra sul campo, infatti, è composta da un’archeologa, che è la dott. Ria, e da un’antropologa, che è la dott. Barbieri, entrambe operano sotto la nostra direzione scientifica. Non avrebbe senso lasciarle qui. Una è qui sotto [indica]. L’altra è qui [indica]. Adesso le abbiamo protette con pietre e sabbia perché gli scheletri erano proprio a vista. Guardate qui [indica]: questa è un’altra lastra di copertura. Anche qui, “purtroppo” la vegetazione resiste ancora, la duna è stata quasi del tutto mangiata letteralmente dal mare.
S.B. La situazione non è semplice…
S.S. No…è complicata da gestire, sia per la compresenza di più enti che operano sul territorio, di più competenze cioè che, come dicevo, si intrecciano, sia come tutela, per la presenza del mare e, soprattutto, per l’avanzamento della linea di costa in un punto che prima era protetto. Non c’è solo il problema del coperchio di sarcofago che resta a vista ed è esposto agli agenti atmosferici o alla frequentazione dei bagnanti o dei turisti. C’è proprio il rischio concreto che i dati vadano persi. Sotto quegli strati di sabbia ci sono dei dati che stiamo tentando di recuperare, in fretta, e che sono fondamentali per la ricostruzione della storia insediativa di Porto Cesareo e, secondo me, anche del Salento. La scommessa in cui crediamo noi come Soprintendenza, e il nostro dirigente, l’arch. Piccarreta, è di restituire qualcosa al territorio in termini di conoscenza. Questo naturalmente implica che questo scavo abbia un seguito e che i materiali vengano studiati e gli scheletri analizzati, affinché il territorio sappia qualcosa di se stesso e del suo passato.
S.B. Come frequentatori dello spot, le chiediamo, anche per scongiurare inutili allarmismi. Crede che in qualche modo tutto questo comprometterà la possibilità per gli sportivi di praticare e di vivere l’area?
S.S. No, assolutamente. Non vedo perché limitare o negare la possibilità di praticare dello sport qui o a partire da questo punto. La dottoressa Ria mi racconta del fatto che gli sportivi erano abituati a partire proprio dal punto in cui ora c’è il cantiere. Questa in realtà è anche la ragione per cui abbiamo deciso di avviarlo subito. Questi cantieri devono essere conclusi più preso possibile, comunque prima che arrivi la bella stagione, proprio perché non si può immaginare di inibire la frequentazione pedonale o balneare di un tratto di costa, soprattutto se può essere del tutto rispettosa, anche dei beni archeologici. Se queste tombe sono rimaste qui in tutti questi anni, visibili in parte ai più, e non hanno subito nessuna aggressione, è anche perché le persone che vivono quest’area sono state sempre rispettose del patrimonio. D’altra parte, siamo circondati da beni d’interesse archeologico.
S.B. Il turismo balneare e sportivo possono convivere con il patrimonio archeologico, dunque…
S.S. Certamente. Anzi, forse sarebbe anche il caso di valorizzare queste presenze, magari con dei pannelli esplicativi, per far sì che chi frequenta l’area possa apprezzarne oltre che il valore paesaggistico e sportivo anche quello archeologico. La tutela non la facciamo solo noi. La tutela è per forza condivisa, non possiamo fare i paladini della tutela se non c’è condivisione con i cittadini. I cittadini devono essere coinvolti, altrimenti le nostre battaglie rischiano di sembrare battaglie contro i mulini a vento. L’educazione al patrimonio è fondamentale e deve essere promossa anche da noi, ad esempio le conoscenze che ora si hanno su quest’area. È quello che si sta facendo in Italia e in Europa anche con il patrimonio subacqueo, difficilissimo da tutelare perché chiunque può andare giù e portarsi via un “souvenir”. Educare al patrimonio significa poter spiegare al cittadino che quello che sta vedendo è bene che lo vedano anche i suoi figli, i suoi nipoti, e che è importante che venga tutelato. È vero che in alcuni casi per tutelarle è necessario tacere (a breve termine) la presenza di alcune evidenze. Ma non è questo il caso. Qui, proprio perché le preesistenze sono venute alla luce grazie al mare, è necessario chiedere la collaborazione dei cittadini. Anzi, per quel che ho visto, più che cittadini, qui, si è comunità. I timori che l’area possa essere interdetta sono assolutamente infondati. Oltretutto sull’area non c’è neanche il un vincolo archeologico: non è un’area vincolata, c’è solo una segnalazione, come d’altronde in tantissime altre aree con beni presenti ed evidenti. Ma quand’anche ci fosse il vincolo, questo non ne precluderebbe comunque la frequentazione, nel rispetto, certo, delle evidenze.
Porto Cesareo, 13.12.2019
Salento Bats