19/10/2024
MANDAMI A DIRE
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Viso paffuto che pareva uscito da un quadro di Botero, sguardo
da inferiore consapevole, Laura scendeva ogni mattina da Santa
Teresa per raggiungere le scuole elementari.
Nelle sue parole mai dette per timidezza, e nei suoi pensieri mai
palesati, neppure in un’ipotetica ora d’aria, sono sicuro che
avrebbe preferito restare là, nel ventre della collina, dove qualche
anno prima si trovavano le sezioni distaccate per chi viveva da
Bosine fino a Polaveno. Sarebbe stato molto più comodo e
rassicurante per lei, frutto acerbo di montagna mai maturato.
Laura veniva da un mondo a parte e viveva una vita sospesa.
I suoi silenzi ostentati e ostinati avevano creato sin dal primo
giorno di scuola un solco insormontabile tra noi, ragazzini
spaesati della 1^ elementare, pieni di voglia di vivere, e lei, brutto
anatroccolo tonto e muto che, non potendo scegliere, si rassegnò
a sopravvivere. I suoi compagni di ventura “montanari” invece
erano tutto il contrario, forse perché avevano qualcosa da portare
alla causa: Bruno era grande, grosso e buono, il difensore e
protettore di tutti noi. Era il nostro Garrone da libro Cuore.
Cioli era amico di Bruno, e solo per questo sapevi di portargli
rispetto. Di nome faceva Giorgio e, seppur anch’esso mostrasse
il disagio e la ristrettezza di essere tolto dagli allevamenti di polli
e di bestiame, aveva conquistato tutti noi “cittadini di lago” con
le prime primavere vissute in gruppo sui prati di San Martino,
nelle stalle e nei pollai, nelle merende fatte di pane, b***o e
zucchero, con qualche fetta di salame e un bicchiere di vino per
la maestra Bonardi e suo marito Franco.
Stessa dote avevano portato l’amico Mauro “Gallo”, con le memorabili pasquette alla sua cascina dei “Curtei”, a due passi dal “Bersai” e dalla “Val dei Precc” e Martinelli, che alla Rocca, oltre al Licinsì, poteva offrirci divertimento e una veduta sul lago incomparabile.
Laura invece non aveva nulla da portare. Era solo un sacco di
juta vuoto, speranzoso di essere riempito di conoscenza, di
vocali, consonanti, aggettivi, tabelline, addizioni, sottrazioni,
moltiplicazioni e le temibili divisioni.
Ma la sua mente era una barca che faceva acqua da tutte le parti, e sapeva che quella speranza sarebbe risultata vana. Erano i primi anni ’70, la maestra era una sola, per noi l’indimenticabile Velia Bonardi. L’insegnante di sostegno era un concetto ancora lontanissimo. Nelle classi non c’erano divisioni, si stava tutti insieme, ognuno con i suoi quaderni, a righe e a quadretti, con l’astuccio, l’antologia e il sussidiario. Ma le divisioni c’erano eccome, a volte non volontarie, spesso volute. Si percepivano nelle ricreazioni in cui Laura se ne stava sola con se stessa, seduta sul muretto appena fuori dall’entrata. Qualche volta prendeva coraggio e provava ad aggregarsi alle compagnie sparse nel cortile, ma il suo era un incerto accodarsi e rincorrere i continui spostamenti spensierati delle “compagne” di classe.
Penso che Laura sia stata la prima persona che ha fatto
avvertire in me quel pugno nello stomaco e quella tristezza nel
cuore a significare compassione, pietà, commiserazione, ma
mai pena. Io pena non l’ho mai provata per nessuno, ad
eccezione di qualche politico dei giorni nostri. Sì, penso sia
stata proprio Laura a farmi fiorire nel cuore il primo seme di
sensibilità, che da quel momento non mi ha più lasciato, come
uno zaino fissato sulle spalle che negli anni è andato sempre più
riempiendosi fino a diventare dolore quasi insopportabile.
La osservavo impotente nella sua solitudine, nel suo arrossire
ogni qual volta doveva rispondere alla maestra, con la sua voce
flebile che trasudava insicurezza e disagio.
Quanto avrei voluto sentirla almeno una volta recitare tutta d’un fiato la “Candida luna” del Guicciardini, e quanto avrei voluto vederla riempire di pagine scritte il tema “La mia famiglia” o “Le mie vacanze”. Non è mai successo.
Per lei la campanella delle 12.30 era una liberazione, una sorta
di lasciapassare per tornare lassù, dietro la collina, nel suo mondo
di sotto, dove per sentirsi vivi non servivano i pizzichi. Solo lì
ritrovava la parola. Chissà di cosa parlavano, Laura e si suoi
genitori, nelle sere in famiglia, intorno a un tavolo adornato di
umile companatico, quando il giorno era prossimo a spegnersi.
“Nessuno sa di me, nessuno mi capisce. Nessuno vede l’amore
in me, nemmeno lo intuisce” - e giù nuvole gonfie di pianto, col
padre impotente, la madre sconsolata, e i fratelli troppo piccoli
per capire cose che neppure i grandi erano in grado di comprendere.
Oggi, cinquant’anni dopo, non so come mai e neppure il perché,
sono qui a chiedermi che fine avrà fatto Laura, quale sarà stato
il suo destino. Nel suo viale dei persi avrà trovato un compagno
da amare e che l’avrà fatta sentire per la prima volta amata e
considerata? Avrà avuto dei figli? Sarà ancora in vita?
Mi piace pensare che, nella imprevedibilità e infinita bellezza
della vita, oltre ad essere riuscita un giorno a recitare “La luna
candida” del Guicciardini tutta d’un fiato, sia diventata lei
stessa una poetessa, oppure una scrittrice dispensatrice di
meraviglia, di scintille, di uguaglianza e di solidarietà.
Oggi, con colpevole ritardo, quel bambino che allora aveva sei
anni, è qui a considerare che per lei e per ognuno dei frutti
dimenticati come lei, ci sarebbe voluto un Dio, un Santo o più
semplicemente un uomo che sapeva stare sopra tutti i sentimenti.
Ci sarebbe voluto e ci vorrebbe ancora oggi, forse più di ieri.
Un benevolo protettore, che ai primi segnali di paura e al primo
apparire di quelle nuvole gonfie di pianto e solitudine, si manifesti
discreto e silenzioso, di notte, quando anche la mente dei soli,
dei deboli, degli incompresi e degli emarginati, si apre desueta
e inconscia in cerca di aiuto, per dire:
“Basta. Lascia che ti annusi in questo batticuore, lascia che ti
indichi la via maestra e ti faccia da spalle larghe in questa terra
di pecore e di lupi. Basta vagare per campi in cerca di un
quadrifoglio, basta passare la sera da sola a cercare la luna.
La gente saprà di te. La gente finalmente riuscirà a capirti.
Anche tu conoscerai l’amore, e t’innamorerai.
Giovane compagna che vivevi addormentata, da questo momento farò in modo che tu sia un’anima fiera. Ti condurrò fino al punto in cui il mondo scollina ed inizia la discesa, ti accompagnerò fin quando non ti vedrò sicura nel tuo andare. E se un giorno avrai ancora bisogno di un aiuto, ti prego... mandami a dire”.
Dedicato ai soli, ai deboli, agli incompresi, agli emarginati.
da L'ORTO DEI FRUTTI DIMENTICATI - di Gianluca Serioli