20/09/2022
Una toccante nota personale di Glen Gabbard:
Anni dopo la fine del mio training analitico, ho notato che alcuni problemi non adeguatamente esplorati nel corso della mia prima analisi continuavano a tormentarmi.
Per questo, ho deciso di intraprendere una seconda analisi in un’altra sede e con un analista di diverso orientamento.
Questo trattamento è andato avanti per un po’ di tempo e mi sono accorto che il beneficio che ne traevo aveva approfondito la mia comprensione di quei problemi.
Dopo alcuni anni ho sollevato la possibilità di una conclusione dell’analisi. Il mio analista non era né a favore né contro, ma cercò piuttosto di esplorare com’era emersa questa idea dentro di me e quali fossero secondo me i vantaggi e gli svantaggi di questa scelta.
Dopo alcuni giorni dedicati a questa esplorazione, provai un senso d’irritazione per l’analista e glielo comunicai. Ero soddisfatto del nostro lavoro insieme – chiarii – ma sentivo che lui mi stava trattenendo per ragioni sue. L’analista continuò
ad analizzare come al solito, e io iniziai a chiedermi quando mi avrebbe «lasciato andare».
Fece un’osservazione che mi colpì molto. Dopo che gli avevo espresso la mia irritazione, mi disse: «Probabilmente è più facile per lei concludere l’analisi se pensa che io la stia trattenendo invece di lasciarla andare».
Gli chiesi perché lo pensasse. Lui rispose: «Forse per lei è più facile provare rabbia piuttosto che dolore». Gli occhi mi si riempirono di lacrime e mi resi conto che aveva toccato un nervo profondo dentro di me. Non volevo affrontare la parte infantile di me che aveva a che fare con la perdita e la paura di essere solo. Un lontano ricordo affiorò nella mia mente. Quando avevo tre o quattro anni, mia madre mi lasciò in un asilo nido perché doveva tornare a lavorare. Mi disse di non preoccuparmi. «Andrà tutto bene», disse.
Volevo crederle, ma non sapevo cosa rispondere. Alla fine le dissi: «Il tuo cappotto è sbottonato. Lo abbottono io per te». Dopo verlo fatto, le dissi che sarei stato bene. Sentii istintivamente – a quell’età non ero in grado di tradurre questo sentimento in un pensiero – che questo era ciò che voleva sentirsi dire.
Quando se ne andò, trattenni le lacrime in modo che non mi vedesse piangere mentre usciva. Lo ricordo ancora con chiarezza.
Quando tornai alla mia conversazione con il mio analista, riconobbi che la mia indignazione poteva derivare dalla percezione di un suo rifiuto di lasciarmi andare.
Questa postura difensiva e controfobica era un tentativo di aggirare sia il dolore di perderlo sia il processo di lutto associato all’essere senza di lui. Sono cresciuto con forti difese contro qualsiasi bisogno e vulnerabilità.
A posteriori, mi sono reso conto che mia madre non aveva tempo per prendersi cura di me e che quindi avevo finito per adeguarmi alla sua immagine di me come bambino non particolarmente bisognoso di attenzioni. Era chiaro che si trattava di un diniego delle mie esigenze di dipendenza.
Arrabbiarsi e indignarsi perché il mio analista mi stava trattenendo con sé era un modo per evitare di lasciar emergere i miei lati infantili: il desiderio, la dipendenza e la speranza di non dover subire l’abbandono.
Avvicinandomi alla fine dell’analisi con un piede già fuori dalla porta, la mia concettualizzazione consisteva nell’idea che il mio analista mi stava costringendo a restare e che io dovevo lottare per la mia indipendenza. A livello inconscio, mi confortava pensare che
voleva che rimanessi.
Rivista di Psicoanalisi (2021, LXVII, 2)