16/05/2023
Così scrive Valentina dalla Sardegna (nome inventato di persona reale), a seguito dell’ultimo articolo:
“ … … NEL TUO ARTICOLO HAI PARLATO DI UN ARGOMENTO A ME CARO: IL CONFORTO. MI HAI APERTO GLI OCCHI: ESISTE L’INCAPACITÀ DI CONFORTARE! DA OTTOBRE DUE MIE CARISSIME COLLEGHE HANNO VISSUTO UN GRANDE DOLORE. AD UNA È MORTO IL MARITO IMPROVVISAMENTE, È USCITO DI CASA E DOPO UN’ORA L’HANNO CHIAMATA DICENDOLE CHE ERA MORTO. ALL’ALTRA, IL FIGLIO DI 18 ANNI HA AVUTO UN INCIDENTE IN MOTO, ED È IN COMA. SONO AFFEZIONATISSIMA ALLE MIE COLLEGHE, AVREI VOLUTO ALLEVIARE UN MINIMO QUEL PESO, MA NON SONO RIUSCITA. CON LA LETTURA DEL TUO ARTICOLO MI SONO RESA CONTO CHE FACCIO PARTE DI QUELLE PERSONE POVERE, CHE NON SANNO CONFORTARE. NASCE QUINDI UNA DOMANDA PER TE: SI PUÒ IMPARARE A CONFORTARE? UN CARO SALUTO PROF”.
Quelle descritte sono due delle situazioni più difficili che una persona incontra nella vita, sia come protagonista che come possibile aiutante che vuole confortare, per l’affetto e la compassione che nutre.
Non ho codificato a priori questo argomento, per cui rifletto con voi a voce alta, come se ci potessimo confrontare alla pari, partendo ovviamente dalle nostre esperienze di vita.
Parto dalla maggiore difficoltà che ho incontrato nell’essere di conforto a qualcuno.
Diversi anni fa mi telefona il mio medico di famiglia e mi chiede se posso essere d’aiuto ad una coppia di genitori che ha perso il figlio molto giovane, suicidatosi due giorni prima, e mi dà il loro telefono. Chiamo e fisso un appuntamento a casa loro, perché anche se normalmente non si fa, questo mi sembra un caso speciale sul quale non andare troppo per il sottile.
Mi trovo di fonte due persone sotto choc, emotivamente provate, incredule, confuse, il padre molto più della madre, donna molto più pratica e razionale. Per quel figlio hanno investito tutta la loro vita, hanno messo in piedi una piccola azienda per il suo futuro, hanno fatto tutto quanto per renderlo felice e appagato, perdonando qualsiasi malanno fatto, comprese alcune autovetture distrutte in vari incidenti.
Mentre parlano e io ascolto, cerco di capire cosa posso fare per loro, oltre al tempo dedicato e alla comprensione non scontata e banale. Cerco di capire di quale conforto hanno bisogno in questo primo momento di shock, ma mi rendo conto che l’impresa è per me impossibile. Loro, soprattutto il padre, vorrebbe avere una risposta immediata a qualcosa che di immediato non ha nulla, il dolore per la perdita di un figlio. Vorrebbe sollevare il suo stato d’animo e la sua angoscia che non gli permettono di dormire.
Gli parlo della gestione degli aspetti legati ad ansia e sonno con il Medico di Famiglia per l’assunzione di farmaci da sostegno, e con me per un supporto nel momento della botta, ma a loro non sembra sufficiente. In poche parole, non vorrebbero provare quel dolore che li sta devastando, e non riescono a vedere alcun futuro per la loro vita, visto che il loro futuro era il figlio, e ora tutta la loro vita ha perso di senso, compresa l’azienda che vorrebbero mollare e chiudere immediatamente.
Non avevo nulla da dare loro, soprattutto perché loro desideravano altro, lontano dalle mie possibilità. Soprattutto non avevano bisogno di conforto ma di miracolo.
Penso che il conforto sia possibile quando le persone lo desiderano, quando ne hanno la percezione perché hanno perso qualcosa o hanno bisogno di qualcosa. Il conforto e il modo di offrirlo, non può prescindere dal bisogno che gli altri esprimono, non può essere fatto a caso, solo sull’onda della nostra buona volontà, compassione, comprensione umana.
Un tempo il conforto veniva offerto per specializzazione da figure religiose, sacerdoti e suore. E lo facevano a modo loro, secondo i loro riferimenti religiosi e di fede, parlando di paradiso, di cielo, di angeli e quant’altro. Un tempo quel tipo di conforto aveva una sua ragion d’essere e per molti “funzionava”, perché le persone erano assorbite e parte di un sistema sociale che attribuiva valore e significato a quelle parole.
Ho incontrato diversi sacerdoti che oggi, con i riferimenti della società odierna, sono in difficoltà, non hanno strumenti adeguati, e quelli di un tempo non fanno più presa.
Ciò che immagino e penso, senza pretesa di rappresentare una legge divina, è che il conforto oggi ha due direttrici principali sulle quali ci si può muovere.
• Rassicurazione
• Speranza
Un bambino che si sbuccia un ginocchio, nel momento del dolore fisico ha bisogno di un tipo particolare di conforto. Ha bisogno di sentirsi rassicurato e protetto. Rassicurato sul fatto che il dolore abbia una durata limitata, e protetto dalle cure di un qualsiasi adulto.
Una moglie che perde un marito improvvisamente non ha bisogno per prima cosa di rassicurazione. Non è un dolore che se ne va col tempo, anzi spesso aumenta. Aumenta il senso di vuoto, di abbandono, di solitudine, di rammarico per qualcosa che si è interrotto così bruscamente, a volte rimorso per tutte le cose non dette o non fatte o lasciate in sospeso.
La percezione chiara del bisogno di conforto, mi arriva alla coscienza una dozzina di anni fa, quando un camion travolge un mio caro fratello in sella alla sua fedele bicicletta. Un vuoto improvviso e violento per tutte le persone a lui care.
Ma il bisogno di conforto deve essere declinato a sua volta, deve essere tradotto per poter ricevere una possibile risposta adeguata.
Per me in quella situazione, il bisogno di conforto era ed è tuttora legato al bisogno di speranza, la speranza che la vita non si esaurisca con la nostra esistenza terrena, perché altrimenti perderebbe tutto di significato. La speranza offre la possibilità di ricomporre il puzzle scombinato, anche se in modo immaginario e decisamente non oggettivo.
Spesso le persone hanno bisogno di riempire di un qualche significato un evento spiacevole, di porlo in un orizzonte di più ampio respiro, non ridurlo al bisogno del momento, irrimediabilmente frustrato. Ma questo non sempre e soprattutto non subito.
La stupidità più assoluta che conosca, è attribuibile a quei giornalisti che intervistando un genitore o un parente nel momento del lutto per la perdita improvvisa e violenta di un proprio caro, fanno la classica domanda: “Lei perdona gli assassini di sua/o figlia/o?”.
E dopo queste considerazioni preliminari, veniamo alla parte più pragmatica della domanda: “Si può imparare a confortare?”.
La domanda è retorica, e la risposta non può essere che un sì.
Semmai lo scoglio più arduo, la domanda più difficile cui rispondere è “Come si fa?”, non “Si può imparare?”.
Ecco qualche mia semplice idea, rivedibile, provvisoria, immaginata.
1) Il primo passo è comprendere quale situazione di vita sta vivendo la persona coinvolta.
E’ un ginocchio sbucciato? E’ la perdita di un lavoro? E’ una relazione interrotta? E’ il lutto da una persona cara? E di quale persona si tratta? Che tipo di distacco? Immediato, dopo una lunga malattia, violento?
Ogni situazione di vita ha molti particolari che la rendono unica e non ripetibile. Non si possono fare le stesse cose con tutte le persone e in tutte le situazioni allo stesso modo.
2) Comprendere, legittimare e rispecchiare i sentimenti che la persona vive in quella situazione.
Si sente a disagio, confusa, disorientata, giù di morale, vuota, disperata, abbandonata, sfiduciata, demoralizzata, in colpa, affranta, risentita, scoraggiata, triste, sola, amareggiata, delusa, arrabbiata, e centinaia di altre parole-sentimento.
Comprendere, legittimare e rispecchiare i sentimenti che la persona vive richiede due o tre competenze. La capacità di decentrarsi dai propri pensieri e sintonizzarsi sul mondo interiore dell’altra persona. La capacità di verbalizzare tutto quanto si è raccolto in questo cammino all’interno del mondo dell’altro. Il coraggio di pronunciare parole che possono spaventare, che possono essere ritenute pericolose. Spesso le persone non hanno il coraggio di dire a una persona: “Ti senti disperata”, come se non dirlo evitasse di provarlo. E spesso questa mancanza di coraggio è legata all’incapacità di gestire le possibili conseguenze. Come dire: “Se gli dico che si sente disperata e lei mi risponde di sì, poi come faccio ad andare avanti, come faccio a gestire e aiutare una persona disperata?”.
Non è così, molte volte quando una persona disperata se lo sente dire, se lo sente rispecchiare., può succedere qualcosa di particolare. Per prima cosa si sente riconosciuta. In secondo luogo si sente compresa. In terzo luogo non si sente sola con la disperazione, che è anche peggio. In quarto luogo può aprire la porta nel tempo a cosa farne di quella disperazione.
3) Aver dato o per lo meno aver pensato al tipo di risposta da dare a certi eventi nella propria vita.
Il primo tipo di conforto che possiamo imparare, è quello da rivolgere nei nostri confronti nei momenti di difficoltà. E’ il modo in cui noi cerchiamo o riusciamo a rassicurarci. E’ il modo in cui noi cerchiamo o riusciamo a darci speranza. Il che aprirebbe la porta alla conoscenza di sé e alla definizione dei nostri orizzonti più o meno ampi nei quali inseriamo le nostre esperienza di vita spiacevoli.
Si insegna solo ciò che si è.
Si può confortare solo se si è imparato ad educare la propria umanità.
Per prima cosa verso se stessi.
4) Riflettere sul bisogno espresso implicitamente o esplicitamente in quella situazione: Rassicurazione o Speranza?
Il che aprirebbe la porta ad altri due articoli o capitoli: Come si rassicura? Come si dà speranza?
Due grossi capitoli che non posso trattare in modo esauriente in questo breve ma già lungo articolo, ma due qualità di possibile acquisto nel “Negozio Magico”.
Possiamo però dire cosa certamente andrebbe evitato, giusto per non provare maggiore inadeguatezza di quanta non ci sia già, e magari rompere relazioni per questioni di incomprensione, nonostante la buona volontà.
La razionalizzazione è uno di questi comportamenti possibilmente da evitare. Far ragionare una persona, portare argomentazioni o spiegazioni proprio quando non è in grado di riceverle perché mossa da emozioni, magari forti, è una delle esperienza più spiacevoli che chi necessita di conforto può incontrare.
Anche la condivisione di una propria esperienza, seppur simile, soprattutto se non richiesta, può far scaturire riserve e diffidenze, andare proprio dalla parte contraria del conforto. Facile che una persona coinvolta dall’evento spiacevole nel ricevere una esperienza terza dica: “E ma tu sei tu…”, “E ma però a te…”, “E ma non è la stessa cosa…”.
Passando sul fronte del “Cosa si può fare”, già porsi la domanda e darsi una risposta sul tipo di bisogno che l’altro esprime, implicitamente o esplicitamente è già un grosso passo.
Rassicurazione o Speranza?
Così come un grosso passo sarebbe quello di verbalizzare, rispecchiando questo bisogno all’altro e osservando la sua reazione e ascoltando le sue parole: “Avresti bisogno di ricevere una qualche rassicurazione… di sentirti sicura… protetta…”, “Avresti bisogno di non perdere la speranza… di attribuire significato a questo fatto negativo… avresti bisogno di sapere che non è tutto finito qui… che c’è un motivo per quanto accaduto…”.
E poi da lì in poi si cerca, magari insieme, magari da soli, magari facendosi ve**re qualche idea su come perseguire l’obiettivo, su come aiutare il cammino verso una strada non semplice.
Ma c’è un momento nel quale nulla sembra funzionare. E’ inevitabile.
Ed allora è il momento della attesa, della vicinanza e della presenza senza far nulla, una presenza silenziosa, discreta ma presente nei tempi e nei modi in cui viene percepita come positiva, oppure è il momento di parole di speranza e rassicurazione senza l’attesa di alcun esito, lasciando che il tempo faccia il suo corso.
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