18/11/2022
sezione narrativa- primo classificato- Premio Chatwin 2022 -
DI VENTO E DI SABBIA - (MAURITANIA)
di GIULIA TABACCO
Premia PAOLO RUMIZ
I mauritani parlano poco e sono vestiti di vento.
Bianchi, azzurri, blu, gli uomini; lilla, verdi, a fiori, a rombi, le donne. Quando camminano le stoffe si alzano, si arricciano, si gonfiano. I tessuti chiudono le teste: quelle degli uomini con un turbante, che contorna il mento come una ghirlanda e sale fino al naso, quelle delle donne con un velo che passa dietro le spalle, va giù per la schiena poi torna fino ai capelli.
Per forza si coprono, è una questione di numeri.
75.
75% del loro Paese è sabbia. Ci sono più grani di sabbia che di couscous, è più dei datteri freschi in agosto, più degli arbusti aguzzi che sgranocchiano le capre, più delle parole che compongono le preghiere. In un Paese di sabbia l’unica è coprirsi.
Per non dire del sole e del vento. Il sole è di un bianco che fa male agli occhi e l’aria smeriglia la pelle: è per l’aria che hanno inventato questi abitoni che coprono facendo al contempo volare i contorni. Per lasciarla passare. Il vento trasforma le persone in navi, il deserto pare un mare ocra solcato da barche colorate: di quelle barche i corpi sono gli alberi, i piedi le ancore, gli abiti le vele.
I mauritani parlano poco perché sabbia e vento si infiltrano nel naso e nei pensieri. Parlano poco perché il Sahara è grande.
Salima di mestiere fa il nomade. Ha tre cammelli e due dozzine di capre, una tenda per dormire e un’altra, larga e aperta davanti, per riposare. Quando arriva l’ora della preghiera si toglie le scarpe e si passa le mani sui piedi nudi, poi si accarezza i palmi l’uno con l’altro: non c’è acqua per le abluzioni, allora le mima. Cuoce il pane sotto la cenere, prepara il tè e lo versa tre volte, ha un’accetta sotto la sella del ca****lo e con quella taglia la legna per il fuoco.
Con lui nel deserto trovo alberelli contornati da pallini gialli profumati che a toccarli si sfaldano tra le dita. Li guardo, li annuso, li accarezzo, li riconosco. È mimosa. Mimosa gialla nel Sahara, con l’aggiunta delle spine: ma qui è normale, qui ogni arbusto al posto delle foglie ha aculei bianchi e affilati. Intendiamoci, è probabile che abbia un altro nome, la pianta che ci dà un’ipotesi di riparo quando il sole è troppo intenso: per me, però, è lei, il simbolo dell’otto marzo, della festa delle donne. Una ricorrenza che quaggiù nessuno ha mai sentito nominare: ma io, che la festeggio da tutta la vita, mi emoziono, perché siamo all’inizio di marzo e questo vuol dire che i fiori gialli sbocciano nello stesso tempo in Liguria e in Mauritania, anche se tra qui e Savona ci sono 5.200 chilometri.
“Nutrimento
per gli animali ce n’è?”, domando a Salima una sera al tramonto.
“Così”, risponde guardando gli arbusti rinsecchiti.
L’ho detto che i mauritani parlano poco: preferiscono starsene dritti davanti alla terra baluginante, sono dei gran guardiani dell’orizzonte. Roba da far ammattire noi che alla sabbia che screpola le rughe non siamo abituati: cosa vuoi dire, Salima? Così così, così abbastanza, così neanche un po’? Ma lui sta zitto, immobile di fronte al sole, che finalmente non è più un neon infinito. Finché a un tratto dice: “Vedi laggiù, proprio davanti ai tuoi occhi. Là vanno gli animali”.
Fa una pausa.
“C’è una pozza d’acqua. È verde, fresca, buona. C’è sempre, non si estingue mai.”
Allora capisco che nella lingua del Paese della sabbia che scivola tra le dita, delle genti che compiono gesti essenziali e precisi, mai uno di troppo, mai uno di meno, mi ha risposto. Di più: mi ha detto una cosa importante. Mi ha mostrato dove si trova la vita.